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Proust come gadget letterario

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È trascorso un secolo da quando Marcel Proust si accingeva a pubblicare il primo volume del romanzo Alla ricerca del tempo perduto. Per l'esattezza uscì l'11 novembre del 1913, e di questi giorni, a fine estate, Marcel stava scrivendo all'editore le ultime disposizioni sulle bozze.

 

Non a Gallimard, perché Gide lo aveva rifiutato, ma a Bernard Grasset, a cui aveva pure pagato le spese con i soldi del papà, a riprova che la cecità dell'editoria è una costante culturale immutabile come la costante cosmologica di Einstein. Gallimard se ne pentirà subito dopo, e con lui lo stesso Gide, che farà mea culpa con l'autore l'11 gennaio del 1914: «Caro Proust, da qualche giorno non mi stacco dal vostro libro. Ahimé, perché amarlo tanto dev'essermi tanto doloroso? Il rifiuto di questo libro rimarrà il più grave errore della NRF e (poiché ho vergogna di esserne in buona parte responsabile) uno dei rammarichi, dei rimorsi più cocenti della mia vita».

 In Francia già fervono i preparativi per la celebrazione del centenario. Da noi Proust è sempre stato un gadget colto più citato che letto, più frainteso che compreso, al massimo possiamo aspettarci un articolo tanto bello quanto floreale di Pietro Citati e morta lì. Negli anni Cinquanta lo citavano pure le parrucchiere, nei decenni successivi solo i critici non affiliati al Gruppo 63, oggi neppure i critici, divenuti le parrucchiere delle terze pagine. Tant'è che Proust resta il «narratore delle intermittenze del cuore», della «memoria involontaria» ridotta agli effetti di un biscotto, al massimo lo scrittore dello «snobismo aristocratico».

In ogni caso il significato profondo, devastante della Recherche è sempre stato aggirato, edulcorato, addomesticato per gli usi più casalinghi. Lo dimostrano perfino le uscite francesi annunciate per l'autunno, a cominciare dal Dizionario Amoroso di Jean-Paul e Raphael Enthoven (padre e figlio e, curiosità, entrambi ex amanti di Carla Bruni), dove si cerca di attualizzare la Recherche inserendo lemmi moderni, da K come Kung Fu a Z come Zinediné, ossia una rilettura proustiana della testata di Zidane a Materazzi. Intingendo il biscotto in tanta aneddotica, ci saranno anche la diatriba tra Proust e Cocteau raccontata da Claude Arnaud in Proust contro Cocteau, e l'attenta disamina fetish del mobilio proustiano nel saggio La lampada di Proust di Serge Sanchez. Se non altro Olivier Wickers resta sull'arredamento letterario e passa in rassegna le stanze dell'opera in Camere di Proust, a riprova che perfino in Francia, come direbbe Arbasino, si preferiscono i soprammobili ai mobili.

Accade il contrario invece sul fronte scientifico, dove scienziati attenti (ormai molto più dei letterati) si sono accorti da tempo delle sorprendenti anticipazioni proustiane, dalle neuroscienze (dove la realtà è una simulazione virtuale del cervello, e si legga al riguardo il bel saggio di Jonah Lehrer Proust era un neuroscienziato, edito da Codice Edizioni) al territorio ancora inesplorato di Proust evoluzionista, attento e precoce lettore di Charles Darwin, infatti proprio dalla biologia trarrà le metafore e le visioni finali più spaventose.

Insomma, altro che poeta debosciato dell'amore e della nobiltà dei Guermantes: Proust arriva dritto a Il tempo ritrovato scarnificando i sentimenti, la vita, il senso del tempo e della memoria, e riducendo l'esistenza a una dolorosa illusione di sopravvivenza, la mente piegata dal destino inesorabile della materia. È per questo che il 1913 è tanto importante per la letteratura quanto il 1859 per la scienza, anno della pubblicazione de L'origine delle specie.

Personalmente ai lettori italiani consiglio la traduzione della Recherche di Giovanni Raboni, la migliore, edita negli Oscar Mondadori. A parte il Proust di Samuel Beckett, non ho mai capito di chi fossero gli altri saggi fondamentali, perfino Debenedetti ha ricamato sulla madeleine il proprio centrotavola romantico con punto a croce.

 Inoltre, poiché dopo il ravvedimento di Gide sarà Gallimard a pubblicare i volumi seguenti della Recherche (mica come da noi, che se va bene si pentono quando gli autori sono morti) è interessante notare quanto, un secolo dopo, siano poco cambiati critici e editori: basta rileggersi in particolare le lettere, gentili ma piccate, scritte all'editore, che sponsorizzava più per Pierre Hamp che lui. Proust neppure lo nomina per intero, solo le iniziali, e il 20 luglio del 1922 scriverà a Gaston: «Che P.H. e altri mi passino davanti mi sembra crudele». Per la cronaca, Hamp era celebrato dai giornali dell'epoca per essere «il nuovo Zola», perché si occupava delle masse, degli operai, dei problemi della società, in altre parole dell'impegno politico, vi ricorda qualcuno? Direi la maggior parte dei nostri autori, che con operai e crisi economica vincono come minimo il Premio Strega. Viceversa Proust era talmente preso dalla sua opera da non accorgersi neppure della Prima Guerra Mondiale. Di certo oggi Hamp non se lo ricorderebbe nessuno se non fosse citato nell'epistolario di Proust, e morale della favola: bisogna sempre stare attenti a chi si nomina.

Massimiliano Parente per il Giornale


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